IL MANICOMIO DEL GROTTESCO – KAREN

Seduto intorno a un grande tavolo da pranzo ero con Karen, la mia Fonte Primaria Intima, e due delle sue amiche più care. L’atmosfera era intrisa di soddisfazione e divertimento mentre eravamo impegnati in una conversazione accattivante dopo aver gustato del buon cibo. I resti dei piatti gourmet adornavano ancora la tavola, i loro sapori squisiti ancora indugiavano sui nostri palati.

Io indossavo un abito su misura che drappeggiava con disinvoltura sul mio corpo ed emanavo un’aria di sicurezza e raffinatezza. Mi appoggiai allo schienale della sedia, con un bicchiere di vino rosso in mano, e osservai le due donne sedute di fronte a me con un sorriso affascinante.

La prima donna, amica di Karen fin dall’infanzia, Anna, emanava eleganza, il suo viso era adornato da un’inconfondibile radiosità. Aveva una presenza regale e i suoi gesti mentre portava il bicchiere alle labbra erano aggraziati. I suoi occhi brillavano di intelligenza e curiosità, riflettendo gli anni di esperienze mondane che l’avevano plasmata. Condivideva aneddoti e conoscenze, la sua voce portava saggezza e calore.

Seduta accanto a lei c’era Kerry che aveva uno spirito vivace. La sua risata riempiva la sala da pranzo, contagiosa e ribollente come lo champagne che ora le veniva versato nel bicchiere. I suoi occhi espressivi saettavano da un viso all’altro, assorbendo ogni parola e infondendo la conversazione della sua energia effervescente. I suoi racconti erano pieni di aneddoti umoristici, che attiravano i sorrisi e le risate degli altri ospiti.

A completare il quartetto di commensali c’era Karen la cui presenza emanava forza e determinazione. Il suo comportamento equilibrato e la sua voce sicura parlavano della sua vita risoluta. Parlava con passione ed eloquenza dei suoi sforzi, condividendo i suoi trionfi e le sue sfide con un misto di umiltà e orgoglio..

Man mano che la serata andava avanti e i bicchieri venivano riempiti di ricchi vini, la conversazione passava da racconti spensierati a discussioni su questioni più profonde. Approfondimmo argomenti che spaziavano dall’arte e cultura alla filosofia e al cinema. Ogni persona esprimeva le proprie prospettive uniche, le nostre idee si intrecciavano e scatenavano dibattiti penetranti.

Condividevamo storie e risate, approfondendo con facilità discussioni intime e stimolanti.

Le ore sembravano scivolare via mentre le conversazioni andavano e venivano, formando un arazzo di esperienze e conoscenze condivise. Appena le risate si esaurirono dopo un altro aneddoto di Kerry, mi schiarii la gola e parlai.

“Provate a immaginare che il mondo si trovi in bilico sull’orlo della sua fine, è naturale riflettere sulla vostra esistenza e meditare su cosa direste in un’occasione così importante. La fine del mondo rappresenta l’ultima prova della nostra umanità, costringendo le persone a confrontarsi con le proprie paure, rimpianti e aspirazioni.

Alla fine del mondo, le vostre prospettive potrebbero cambiare e le banalità della vita quotidiana svanire nell’insignificanza. Vi trovate di fronte alla fragilità della vostra esistenza e alla consapevolezza che il vostro tempo su questo pianeta è finito. In questo momento, siete costrette a riflettere sull’essenza del vostro essere, sull’impatto che avete avuto sugli altri e sull’eredità che vi lasciate alle spalle. Quali sarebbero i vostri pensieri?

È calato un pesante silenzio quando ho permesso loro di assorbire la mia domanda, ho permesso loro di evocare le immagini di Armageddon e ho permesso loro di contemplare pienamente la fine del mondo.

“Beh”, iniziò Anna, un po’ sorpresa, “Di fronte alla distruzione imminente, la gratitudine diventa un sentimento prevalente. Vorrei esprimere il mio apprezzamento per la bellezza della natura, l’amore per la famiglia e gli amici e le esperienze che mi hanno formato. Riconoscerei il privilegio di aver vissuto, anche se per un breve momento, in questo vasto e maestoso universo.

Sono piena di gratitudine per i tramonti che hanno dipinto il cielo di sfumature vibranti, le risate che hanno echeggiato nell’aria e l’amore che mi ha riscaldato il cuore. Sono grata per i momenti che hanno reso la vita degna di essere vissuta”.

Le altre due donne mormorarono il loro assenso.

«E tu, Kerry?», la invitai.

“Per me, la fine del mondo richiederebbe introspezione, affronterei i miei rimpianti e chiederei perdono. Sarei terrorizzata ma allo stesso tempo, poiché ci ho già pensato in passato, riflettevo sulle opportunità mancate, sui sogni non realizzati e sul dolore che potrei aver causato agli altri. Sarei frustrata dal fatto di non aver realizzato tutto ciò che volevo fare, così tante cose lasciate incompiute.

Sono ossessionata dalle strade non prese, dalle parole non dette e dai ponti che non sono riuscita a riparare. Soprattutto, sarei così arrabbiata se tutto questo mi venisse portato via prima che io stessa avessi finito con tutto questo“.

“Lo capisco”, confermò Anna. Poi ci rivolgemmo tutti a Karen.

“Sapete”, iniziò lei, “io non avrei paura, davvero non credo che ne avrei, penso che la fine del mondo possa anche accendere una scintilla di speranza e unità. Di fronte all’annientamento condiviso, le nostre differenze e divisioni diventerebbero insignificanti rispetto alla nostra comune umanità. Questo è ciò in cui credo. Saremmo in grado di cercare conforto in compagnia degli altri, trovando forza nella nostra resilienza collettiva e nella convinzione che anche di fronte alla distruzione c’è sempre spazio per la compassione e l’amore.

In quest’ultima ora, mettiamo da parte le nostre divergenze, tendendoci la mano l’un l’altro e trovando conforto nell’esperienza condivisa della nostra mortalità. Insieme, restiamo in piedi, uniti nella nostra speranza per un domani migliore, anche se ora è fuori dalla nostra portata”.

“Sempre quella ottimista”, osservò Kerry.

Karen si voltò verso di me.

“Cosa penseresti tu? So che non avresti paura. Niente lo spaventa, sapete”, osservò rivolta alle nostre ospiti.

Sorrisi, pronto con qualcosa su cui avevo riflettuto così tante volte e che ero desideroso di condividere con quelli pronti ad ascoltare.

“Mentre il mondo intorno a me si sgretola e si dissolve nel caos io mi sdraio sulla sedia, un lontano osservatore degli eventi cataclismici che si stanno lentamente svolgendo. Si deve osservare il fascino diabolico dell’imminente apocalisse. Sono distaccato dall’isteria, immune dal panico che attanaglia la coscienza collettiva. Con un atteggiamento calmo e distaccato, osservo il decadimento della società, osservando uno spettacolo intrigante distaccato dalle emozioni umane.

In lontananza, le sirene echeggiano per le strade desolate, le loro grida acute si dissolvono nel vuoto. Le fiamme tremolano e danzano in un balletto irregolare, trasformando gli edifici in cenere, riducendo i quartieri in rovina. L’esistenza umana si sta rivelando davanti ai miei occhi, il grande teatro della morte, una mostra della fragilità intrinseca dell’umanità.

C’è una certa tranquillità in questo quadro cupo. Mentre la disperazione e la paura risuonano nell’aria come una minacciosa sinfonia io mi siedo qui, un pubblico insensibile alla devastazione. Il mondo viene consumato dalla sua stessa creazione.

Strade un tempo piene di traffico, un tempo vibranti di vita e di utilità, ora giacciono come terre desolate. Grandi città ridotte a misteriosi echi del loro antico splendore. I resti della civiltà non sono altro che i resti di un sogno infranto. Gli echi della vita si sono ritirati, lasciando dietro di sé inquietanti elogi di ciò che era una volta.

Le grida dei disperati e le suppliche di salvezza aleggiano nell’aria carbonizzata, deboli sussurri portati dal vento, che cadono sordi nelle mie orecchie. Sono distaccato, perché non riesco più a distinguere tra i vivi e i morti. In questa oscura danza di estinzione, il dolore e la disperazione diventano privi di significato, poiché non hanno alcuna influenza su di me.

Con il mondo sull’orlo dell’annientamento, le nozioni di moralità ed etica si dissolvono nell’insensatezza. I costrutti umani che governavano i ritmi della società ora giacciono in frantumi. La patina di normalità si sgretola, rivelando il ventre selvaggio e carnivoro dello spirito umano.

La sopravvivenza, una volta oscurata sotto strati di aspettative e obblighi sociali, ora si espone in una forma grezza e primordiale. I deboli predano i deboli. La parvenza di ordine erosa, mentre una fame primordiale di dominio e controllo consuma i fragili resti dell’umanità. Gli istinti di sopravvivenza si accendono, bruciando luminosi nel crepuscolo della nostra esistenza.

Guardo i sopravvissuti inciampare nella desolazione, alla ricerca di avanzi che possano fornire una tregua temporanea. È un caos sfrenato mascherato da vita. Il balletto di uno spazzino eseguito in assenza di speranza. Gli ex vicini si trasformano in predatori frenetici. I confini dell’empatia rasi al suolo, calpestati dalle crudeli realtà dell’esistenza. È uno spettacolo sia cupo che affascinante.

Tra le rovine, comincia ad albeggiare in me una profonda consapevolezza. L’apocalisse non è semplicemente una fine, ma un toccante riflesso della psiche umana. È una sinfonia incarnata dei suoi difetti collettivi e delle sue aspirazioni più oscure. Perché di fronte all’annullamento, scartiamo le pretese e i vincoli che hanno governato le nostre azioni. Diventiamo l’essenza del nostro vero io: selvaggio, primordiale e impenitente.

A ogni momento che passa, i resti del mondo che una volta conoscevo si disintegrano ulteriormente. L’architettura fatiscente si erge come muta testimonianza della propensione dell’umanità all’autodistruzione. In questa tela distopica, la fine del mondo diventa un capolavoro macabro, una tela dipinta con i colori della disperazione e plasmata dai sogni caduti dell’umanità.

E così, in questa fantasticheria distaccata, continuo a osservare mentre il mondo gira verso il suo climax finale. L’orologio ticchetta implacabile. Ma mentre questo climax si avvicina e le ultime vestigia di speranza svaniscono, io sono risoluto e impassibile. Perché in questo teatro oscuro, le emozioni che legano l’umanità non hanno più influenza su di me. Sono uno spettatore distaccato, osservo mentre l’atto finale volge lentamente al termine e intanto pronuncio solo una frase:

“Sono stato io“.

Traduzione di PAOLA DE CARLI dal testo originale di H.G. TUDOR