UNA LETTERA AL NARCISISTA – N. 111

Oggi l’ho trovato di nuovo per caso.

Si apre nei posti più strani e nei momenti più strani.

Quel percorso invitante che conduce nei boschi tempestosi, che eravamo noi.

Quella pista celeste che percorro in modo così incurante e felice

E mi sono persa, con te.

Un elisir di estremi che infondono la vitalità della speranza nelle ossa ciniche.

Dove ridevamo così spensierati in quello stato di sogno e abbiamo imparato a conoscerci.

Dove mi sedevo con te e parlavamo alle stelle di noi.

Dove indicavo nelle pozze increspate per mostrarti la vita dentro al buio e riposavo abbracciata con te nei prati al pomeriggio. Quando abbiamo saputo prima di tale pace.

Fermarsi ai miglio marcatori e ai punti di riferimento, meravigliandoci di essere andati così lontano insieme.

Ero così ingenua, quasi arrogante nei miei presupposti

Attraverso le curve, i trucchi e la direzione sbagliata.

Quando ti consideravo con una tale sincerità di intenti

Accompagnata sempre da quella bella cosa che vive e respira che mi ha tenuto al sicuro nel suo stupore. Forte nelle braccia e sfacciato, aveva una resistenza incredibile. Correva e correva

Spesso di fronte a noi, a volte dietro di noi.

Sempre con noi.

Inseguendo tutto ciò che ci minacciava, mi ha distratto o mi ha causato stupore.

Mantenendomi in quello stato di sogno, isolata dal vasto mondo di complessità e dolore al di fuori del tuo possesso.

Come stava fiorendo nelle cure che gli ho dato. Così premuroso e attento ad esso.

Una tale vita in quella cosa, e te, mentre essa si nutriva della luce, ti ho dato entrambe.

Poi, improvvisamente e inaspettatamente, sotto il bagliore del pieno sole, hai abbandonato la pelle con orgoglio davanti a me. Spaventoso da vedere. Ho sopportato molti dei tuoi scioperi. In un disperato momento di chiarezza, ti ho spinto via da me. Giù nella corsa precipita sotto prima che tu colpissi con quelle zanne e mi avvelenassi per sempre.

Con tremenda vergogna e senso di colpa, pensavo di averti visto infrangerti sugli scogli.
Mi voltai per abbandonare il precipizio, ma non riuscivo a trovare la mia via d’uscita. Iniziai a vagare per quegli stessi sentieri ben battuti, da sola e cercando un po’ di riposo nei boschetti. O forse tu, o la porta sul retro a ciò che io ero, o niente affatto sicuro di quello che stavo cercando, ma cercavo almeno un po’ di pace, come quello che avevo prima di te.

Conoscevo così bene questa pista e ho guardato tutto ciò che una volta guardavamo insieme.

fermandoci brevemente alle nostre pietre miliari, osservando i resti della nostra morte.

Visitando miseramente i nostri punti di riferimento e toccando le frecce abbiamo scolpito sugli alberi per guidare la nostra strada insieme. Soffrendo. Soffrendo come se fossi io che mi ero infranta sugli scogli

Sono caduta in uno shock sul corpo emaciato di quella cosa che ho nutrito per te. Dove una volta era così bello ora una creatura nera avvizzita giaceva debole nell’erba. Piuttosto pensierosa l’ho contemplata mentre mi inginocchiavo accanto per ascoltare i suoi dolorosi sussulti

Non era ancora del tutto morta, e piagnucolava di essere nutrita, e gridava a gran voce per l’acqua, per la mia luce, per qualsiasi cosa che la facesse riprendere. E tu non eri lì, e anche se mi ha dato molto dolore (e senso di colpa e odio per la mia crudeltà), ho rifiutato quelle consolazioni.

Dio, come odiavo sentirla soffrire così terribilmente di solitudine e abbandono.

Quindi, il più delicatamente possibile, l’ho raccolta tra le mie braccia e me ne sono andata con essa.

L’ho portata nei nostri posti, nelle nostre piscine, nei nostri prati, nei nostri boschi.

Ho parlato del nostro finale.

Le ho mostrato il nostro ultimo marcatore. Dove ti avevo implorato e tu mi avevi punito e fatto inorridire per quella debolezza. Dove ti avevo annegato nella tua crudeltà ed ero scappata via in preda all’umiliazione

Ha capito allora che continuare a vivere era inutile.

L’ho sentita arrendersi con la dolce carezza del rantolo finale sul mio viso.

L’ultimo brivido e lo spostamento del peso quando l’anima finalmente se n’è andata.

Ho pianto amaramente su di essa e

Spero che abbia sofferto un po’ meno dato che non era sola.

Sono incapace di abbandonare la mia compassione, come vedi.

L’ho seppellita lì, in un bel posticino nascosto in profondità dalle felci.

Priva di marcatore, così nessuno poteva trovarla, dissotterrarla e ridarle vita.

Nessuna pietra o croce per dire cosa giace lì sotto.

Mi sono alzata, rispolverandomi le mani.

E dopo uno sguardo finale, me ne sono andata.

Ma la strada non era migliore.

È stato complicato, cercare di trovare la mia via d’uscita.
Ho fatto errori; mi sono persa, confusa e bloccata nel fango della vergogna.

In un momento di panico, ho chiesto aiuto. E fuori dal buio si è avvicinato qualcos’altro.

“Stai ferma adesso. e ascolta.”

Camminava con me e mi parlava. Spiegando oneste e orribili verità.

Mi ha mostrato tutti i misteri di quella foresta mortale e ha posato le mappe su un altare di pietre su cui continuavo a sanguinare. Cosa succede se vado qui, cosa vedrò se vado là e cosa mi sta aspettando laggiù. Mi ha detto tutto senza filtri e mi ha spogliato delle mie delusioni su di te.

Abbiamo visto che c’era un percorso luminoso e invitante avvolto nei sogni e nella nebbia. Il mio umore si è sollevato vedendo quanto era bello e quanto fosse facile danzare lungo di esso. Ho intravisto un prato familiare proprio dietro una curva in lontananza. Il sole al tramonto era caldo e dorato.

“Potrei essere felice lì. Quella strada sembra meravigliosa.” Ho detto.

“Certo che lo è. È pensata per sembrarlo. Quella falsità è la via del ritorno. La trappola è piazzata e pronta a scattare. “Ti sta aspettando laggiù.” E i miei occhi si sono riempiti vergognosamente di trepidazione speranzosa. E mi doleva il desiderio. “Sì, è ancora vivo. E anche quella cosa che hai seppellito può essere resuscitata. Può sempre essere resuscitata”. Indicava “proprio lì… .vedi quella sagoma”.

Non riuscivo a pensare alle parole mentre lottavo contro la tentazione estatica di auto annientamento.

Fantastica e terribile.

“Distogli lo sguardo, adesso.” ha detto: “Vedi laggiù.” E ha indicato una netta apertura in oscure sfumature contorte. Spine brutali e irritate che afferrano lungo i bordi. Pietre irregolari affilate che oscillano e tagliano quando inciampi sotto rami sterili a lungo privi di vita. Tutti canticchiano incessantemente con canzoni inquietanti di brutte creature notturne. Il mio sangue scorreva freddo.

“Che via è?”

“La via d’uscita.” E prima che potessi dire la mia incredulità, mi ha interrotto. “La SOLA via d’uscita. E quando esci da quella strada, non tornare mai e poi mai.”

Ho esitato. Per molto tempo persa nel dolore confuso della scelta giusta e nella distruzione della persona con quella sbagliata.

Ho forzato i miei piedi insidiosi verso i legnami. Trascinandomi attraverso ogni passo doloroso, tagliato da mille spine che vogliono trattenermi, lasciandomi sanguinante e pungente. La lotta contro di esse è stata estenuante, ma l’impossibile lotta per uccidere i miei sogni mendaci su di te era infinitamente più devastante e mi lasciava spesso in ginocchio. Finché alla fine, sono caduta ansimando dal bordo del bosco, spettinata, gelida e bruciante.

Ma ero fuori. E Libera.

Libera da te. Dalle tue false delizie. Dall’estasi corrotta di te. Dalla tua vergogna segreta e dalla tua crudele miseria.

E quando mi sorprendo per l’improvvisa apparizione della via del ritorno in luoghi inaspettati, non ci vado.

Dove so che sei steso pazientemente per innescare la trappola per me, non ci vado.

Con la tua malvagia ingannevole pelle mimetica e le tue lunghe braccia aperte per attaccarti a me, non ci vado.

Sollevo la mia dolce faccia al vento, accarezzo il mio sguardo luminoso all’orizzonte, raddrizzo la mia orgogliosa spina dorsale e la corona che ho guadagnato sconfiggendo TE.

E volto le spalle. Perché non ci vado più.

Traduzione di PAOLA DE CARLI dal testo originale di H.G. TUDOR