Eccoci di nuovo. In quel posto fin troppo familiare. Ho perso il conto di quante volte mi sono trovato qui. Nonostante i miei massimi sforzi, le mie coraggiose intenzioni e la mia sincera dedizione, sono rimasto in questo atrio di disperazione. Un po’ di tempo fa questo atrio era un luogo accogliente in cui le piastrelle lucide brillavano e le colonne di marmo luccicavano. L’aria era piena del profumo di gelsomino, mentre la luce del sole si riversava dalla cupola di vetro in alto.
Così tanti corridoi e porte conducevano da questo corridoio, offrendo possibilità eccitanti e intriganti, nuove esperienze e opportunità avvincenti. Posso ancora vederti quando hai varcato la soglia, invitato nel mio mondo e sei rimasto a bocca aperta colpito e meravigliato dalla grandezza. Con l’appoggio del mio braccio generoso ed espansivo come al solito ti ho offerto di percorrere liberamente quei corridoi e quelle stanze. Hai sfruttato appieno la mia generosità e perché no? Eri un acquisto molto gradito e speciale.
Adesso guardaci. Il tuo fallimento ha reso questo un luogo freddo e desolato. La cupola ha risentito delle frequenti eruzioni di rabbia frustrata, i vetri una volta chiari ora sono rotti o macchiati della sporcizia del tuo tradimento. Il sole non brilla in questo atrio da molto tempo, infatti, nessuno di noi può ricordare quando è successo l’ultima volta. Gli alti pilastri sono spezzati e scheggiati, a testimonianza dei tuoi assalti ingiustificati alla nostra persona mentre la tua lingua biforcuta di critiche si scagliava su di noi.
Le piastrelle sono rotte e irregolari, e ti fanno correre il rischio di inciampare e cadere puntualmente sul pavimento, il freddo schiaffo della tua rovina, un forte richiamo al cambiamento che ha attanagliato questo luogo. Si sente il debole gemito del vento mentre ondeggia, tempestoso e soffiante, cercando l’ingresso attraverso le finestre rotte e le persiane fatiscenti.
Questo è il vento vero, o sono le torturate proteste delle ombre e degli spettri che ancora infestano questo atrio? A volte li vedi, le figure abbandonate che scivolano senza speranza lungo i passaggi sporchi, i capi chini come se sembrassero cercare qualcosa. Ogni volta che li vedi provi uno strano senso di familiarità e comprensione con la loro triste condizione anche se non sei sicuro di chi sono. Senza dubbio una conseguenza dei tratti empatici che continuano a farti rimanere qui.
Ti ho lasciato camminare per questi bei corridoi. Ti ho permesso di ammirare le statue, gli ornamenti che adornavano le pareti e le alcove, che ti affascinavano con la loro bellezza. Ti sentivi amato, ti sentivi appagato e ti sentivi al sicuro mentre camminavi in quel luogo e non dovevi né volevi fare un passo indietro attraverso la porta da cui una volta sei entrato tanto tempo fa.
Ora sei seduto sul pavimento gelido, le mani intrecciate e sollevate in un gesto di contrizione e supplica. La tua faccia è segnata dal dolore della ferita e le frasi di disperazione denotano la tua determinazione a rimanere.
Brandisco la pesante chiave di ferro che sbloccherà la porta buia che incombe su di te e che rivelerà l’entrata verso il freddo, impuro e aspro mondo al di là di essa, un mondo a cui non desideri tornare. Io tengo la chiave mentre sono in piedi sopra di te e ti guardo e, anche se sento la tua voce, non riesco a distinguere ciò che stai dicendo. Cerchi di rimetterti in piedi, la debolezza ti tira addosso mentre tiri giù la manica del vestito sbrindellato che indossi e inizi a strusciarti contro un pilastro vicino.
Ci sputi e cerchi freneticamente di rimuovere la sporcizia come se tu mi mostrassi che il danno può essere in qualche modo annullato. Ti volti e mi guardi, la mano ancora si muove avanti e indietro e vedo l’eterno ottimismo nei tuoi occhi. Quello sguardo che una volta mi sembrava un paradiso e ora serve solo a rafforzare il tuo egoismo nel voler restare qui dopo tutto ciò che hai fatto e tutto ciò che non hai fatto dato che mi hai deluso. Ancora. L’alterazione che avvolgeva la tua voce è scomparsa e ora posso sentirti mentre stai indicando le finestre e le porte che pendono dai loro cardini, i buchi degli schianti su di esse.
“Questo posto una volta era così bello e tu lo hai lasciato cadere nell’incuria, perché l’hai fatto? Io proprio non capisco. Ti ho aiutato a mantenerlo splendente e in una condizione immacolata, ma poi hai semplicemente perso interesse, non collaboravi più con me e ha iniziato a cadere in declino. Era troppo per me mantenerlo da solo anche se dio sa che ho provato, ci ho provato davvero. Non solo tu non mi hai aiutato, ma poi hai iniziato a ostacolarmi, impedendomi di svolgere i miei compiti, trattenendomi e sviandomi.”
Perché mi stai dicendo queste cose? Perché stai cercando di addossare la colpa a me? Perché stai cercando di rendermi responsabile della fine di questo luogo un tempo grandioso? Scuoto la testa e ti indico la chiave, un chiaro segnale del mio intento. Il tuo viso si contorce e le lacrime cominciano a spuntare nei tuoi occhi. Forse potrebbero cadere nella fontana ormai asciutta e portare verso il restauro. Un tale restauro dipende dalla tua tristezza?
“Non farmi andare, per favore, non voglio che questo finisca”, tu implori, con i tuoi occhi, che una volta brillavano di piacere e gioia, e ora sono vitrei, mentre la tua paura dell’abbandono inizia a crescere.
“Questo non deve accadere,” continui mentre metti una mano sul mio braccio, “lasciami restare, voglio solo che siamo felici, essere come eravamo una volta. Sicuramente possiamo farlo? Le nostre risate una volta risuonavano in questo luogo e può succedere ancora.
Possiamo riparare il danno, non si tratta di chi lo ha causato, posso metter da parte la questione, voglio solo che siamo insieme e che noi ricostruiamo quello che avevamo una volta. L’abbiamo fatto una volta, so che possiamo farlo di nuovo, uniamo le forze e ricreiamo ancora una volta quel momento meraviglioso, facciamo entrare il sole e puliamo via la sporcizia e il dolore che cerca di avvolgere questo posto. Possiamo sistemare il vetro, riparare le porte, strofinare i pavimenti, pulire, riordinare e fare le cose per bene. Possiamo farlo. So che possiamo. Lo sento profondamente dentro di te, lo so che è così.”
Le tue parole sono impressionanti e fiorenti di speranza. Forse si può fare ma poi tu ci deludi e per questo devi pagare il prezzo. Quella considerazione momentanea di allearci con te e recuperare ciò che avevamo una volta è dissipata. Scuotiamo la testa.
“Non può essere recuperato. Non c’è speranza di farlo”, diciamo lentamente.
Una lacrima ti riga la guancia e si arresta sul mento come se fosse incerta su dove andare.
“Allora almeno facciamo finta di camminare ancora una volta attraverso sale dorate e profumate. Ti prego! Possiamo fare finta vero?
Sì, possiamo fare finta. È tutto ciò che facciamo sempre.
Traduzione di PAOLA DE CARLI dal testo originale di H.G. TUDOR